6 ottobre 2011

FerroVecchio

‎"L’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate."

Steve Jobs


Per me va bene così, otto ore al giorno al tavolo da stiro nel seminterrato in cambio di una busta con dieci pezzi da cinquanta a fine mese.

"Già sbuffano i ferri" - dice il masto - "non possiamo metterci a sbuffare pure noi".
Neanche quando partono le centrifughe e tremano le pareti del locale.
Neanche alle tre del pomeriggio che pare un bagno turco con tutto quel vapore.
Neanche quando arrivano i carichi dei matrimoni dagli alberghi e si finisce a mezzanotte.
C'è la fila di polacche fuori alla porta.

Io non sbuffo e con il ferro percorro chilometri di tovaglie e asciugamani.
Le prime della giornata mi gratificano sempre: pare quasi di cercare l'ordine in mezzo a quell'insieme di pieghe e sgualciture.
Poi, dopo un po', mi annoio, inizio a sudare, la vista si affatica per colpa dei neon...
Allora vado avanti "in automatico", pausa su pausa, fino a fine turno.
Ma senza mai rallentare, nè lamentarmi.
C'è la fila di ucraine fuori alla porta.

La sera mi porto la vibrazione delle centrifughe fino a dentro al letto.
In più, da qualche mese, prendo regolarmente antidolorifici per la schiena, dovendo stare in piedi tutta la giornata.
Allora mi sale la paura di malattie improvvise, perchè so di non potermele permettere.
E mi viene pure il pensiero della pensione che non sto maturando.
Di nascosto mi chiedo se sia una condizione umana quella a cui mi sottopongo.

Poi penso che a tavola non ci metto la Dignità, e allora - rassegnandomi - trovo pace.
C'è la fila di cinesi fuori alla porta.


In memoria delle operaie cadute sul lavoro a Barletta.

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